In una celebre puntata del 2000, i Simpsons previdero che nel 2016 Donald Trump sarebbe stato eletto Presidente degli Stati Uniti.

Il Trump dei Simpsons comprava i voti degli americani, dichiarava guerra alla Cina, si metteva un cane in testa per simulare una folta capigliatura, leggeva Adolf Hitler e mandava sul lastrico il bilancio dello Stato. Alla fine del mandato, veniva sostituito alla Casa Bianca da Lisa Simpson.

Una satira feroce che oggi riecheggia come una profezia che si è avverata.

Vi si contrappone la totale incapacità della stampa di comprendere il trumpismo. 346 quotidiani degli Stati Uniti si sono schierati apertamente con Hillary Clinton durante la campagna elettorale, a cominciare dal New York Times. Solo nove testate si sono schierate con Donald Trump. Eppure, ha vinto lui.

E’ un fallimento dei media, della presunta capacità di imporre i temi politici attraverso l’agenda setting, del loro teorico potere di influenza. La cosiddetta “rivolta contro l’establishment” è una formula accattivante che gli stessi media, e con essi il contesto politico, hanno iniziato a usare il giorno dopo l’esito del referendum britannico sulla permanenza nell’Unione Europea. La vittoria di Trump alle presidenziali Usa è una Brexit molto più grande, un fatto storico di cui non possiamo, oggi, prevedere la portata futura, e anche la definizione di “rivolta contro l’establishment” appare insufficiente a spiegare quanto accaduto.

I giornali e i media elettronici non sono in grado di decifrare la frattura avvenuta nell’elettorato, forse perché editori e giornalisti che li fanno appartengono essi stessi in larga misura a quei gruppi culturali e sociali che hanno perso il contatto con ampie fette di cittadinanza, con il ceto medio impoverito dalla crisi che si rende conto di come il ridimensionamento delle proprie aspirazioni esistenziali non sia più un fatto contingente, dovuto alla congiuntura economica, ma sia ormai strutturale.

Il benessere e le speranze nel futuro che esistevano un tempo non torneranno più per i ceti operai e impiegatizi, per le fasce di popolazione meno istruite. E i partiti tradizionali, compresi quelli di sinistra, non sono in grado di dare loro risposte. Al loro posto si affermano leader e forze politiche che vengono definite “antisistema”. Succede negli Stati Uniti, lo stesso vento attraversa l’Europa e naturalmente non risparmia l’Italia. Salvo rare eccezioni, anche da noi i media faticano a descrivere il fenomeno. Manca, si ha l’impressione, perfino il vocabolario adatto a farlo.

Scrive Andrew Spannaus, giornalista statunitense, nel suo “Perché vince Trump, la rivolta degli elettori e il futuro dell’America” edito da Mimesis, testo che ha anticipato l’esito del voto:

“…i giornalisti di sinistra, come molti commentatori e personaggi pubblici di ogni estrazione negli Stati Uniti, hanno ragione quando censurano certi comportamenti di Trump. Ma questa censura li ha portati a non capire l’essenza della sua campagna: la risposta al disagio profondo dell’America lasciata indietro da un mondo globalizzato in cui il lavoro manifatturiero va nei Paesi poveri, e la crescita dei servizi divide la società tra abbienti e quelli che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese”.

Passa anche da questo limite culturale e professionale la crisi dell’editoria. Che non è solo una crisi industriale ma è anche una crisi di contenuti.