DOPO LA BREXIT CHE NE SARA’ DELLE POLITICHE GREEN?
Al momento le certezze sono due.
Il 9 novembre di quest’anno si aprirà la 26esima conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. E la sede dell’incontro sarà Glasgow, Regno Unito.
Secondo punto fermo: Boris Johnson è tutt’altro che uno sprovveduto e tenterà di sfruttare al 100% questa vetrina internazionale.
Le certezze si fermano qui.
Ciò che non accenna a dissiparsi è l’incognita su cosa sarà delle politiche ambientali e di sostenibilità oltremanica in seguito alla Brexit.
Un tema tutt’altro che trascurabile, tanto è vero che da tre anni a questa parte, all’ombra del Big Ben, si è costituito un network di accademici, docenti e ricercatori indipendenti esperti in materia il cui unico scopo è quello di analizzare le conseguenze della Brexit sulle politiche green sia del Regno unito, che dell’Unione europea.
Esattamente una settimana fa, a 5 giorni dall’Indipendence Day londinese, gli studiosi di Brexit & Environement hanno postato una riflessione complessiva sui rischi e le opportunità determinate da questo passaggio epocale.
RISCHI O OPPORTUNITA’
Fino a questo momento il corpus normativo vigente nel Regno Unito in tema di contrasto ai cambiamenti climatici, qualità dell’aria e dell’acqua, pesca e agricoltura era in larghissima parte mutuato da norme comunitarie. Per evitare di restare del tutto scoperti dopo l’addio a Bruxelles, il governo britannico ha emanato il Withdrawal Agreement Act che di fatto assorbe la normativa dell’Unione europea, una delle più restrittive e avanzate del mondo. Ma si tratta solo di una soluzione tampone. Ciò che infatti viene a mancare con la Brexit è l’impianto di controllo delle norme adottate: la giurisdizione della Commissione e della Corte di Giustizia europea si estende ovviamente ai soli stati membri. E l’Office for Environmental Protection (OEP), creato dal governo per farne le veci sul suolo britannico, secondo molti osservatori non sarebbe sufficientemente indipendente.
MENO REGOLE, MERCATO LIBERO
Le ultime dichiarazioni di Boris Johnson non lasciano tranquillissimi. Per il premier britannico infatti il suo paese potrà diventare un “superman del libero mercato” ma solo a patto che non si faccia legare da vincoli di sorta, nemmeno dal punto di vista ambientale.
Ciò non toglie che Londra possa decidere di ritagliare per sé un ruolo di guida a livello internazionale, dandosi obiettivi ancor più performanti sul breve e medio periodo rispetto a quelli dell’Unione europea. Con il rischio tutt’altro che banale di diventare meno competitiva dal punto di vista commerciale, ma con il vantaggio di dettare l’andatura a tutto il gruppo di Paesi che fanno la gara in termini di politiche ambientali.
Per il momento il parlamento britannico ha iniziato l’esame di tre disegni di legge, l’Environment Bill, l’Agriculture Bill e il Fisheries Bill, il primo dei quali è sotto l’esame attento di una potente lobby (ClientEarth), composta da 13 organizzazioni mondiali che si occupano di sostenibilità, che intende dare un’impronta il più possibile ecologista a questo provvedimento.
LA SFIDA DI NOVEMBRE
In questo quadro di grande incertezza l’unica cosa chiara è che il Regno Unito e il suo presidente vogliono provare a condizionare l’azione del resto del mondo occidentale e non solo.
E l’occasione del Cop26 si preannuncia propizia per un colpo di teatro da parte di Boris Johnson, specie se dovesse riuscire nell’impresa di coinvolgere attivamente in un progetto di dismissione delle fonti fossili da qui al 2050 Paesi tradizionalmente irremovibili come la Cina e l’India.