Trump, la post-verità e i limiti del giornalismo
La nota pubblicata sul numero del 13 novembre del New York Times da parte dell’editore e del direttore del più importante quotidiano del pianeta è senza precedenti:
“Il grande anticonformismo di Trump ha indotto noi e gli altri media americani a sottovalutare il consenso che avrebbe ottenuto? Quali forze e tensioni nel Paese hanno determinato questo esito elettorale?” si chiedono l’editore, Arthur Sulzberger Jr. e il direttore, Dean Baquet.
La loro è una ammissione di responsabilità:
“Riflettendo sui risultati, e sui mesi di copertura mediatica e sondaggi che hanno preceduto il voto, dobbiamo porci di nuovo l’obiettivo di dedicarci alla missione più importante del giornalismo del Times: raccontare l’America e il mondo onestamente, senza paure o favoritismi, sforzandoci sempre di comprendere e di riflettere su tutte le prospettive politiche e le esperienze della vita reale in tutte le storie che vi narriamo”, scrivono.
Il New York Times, ammettono editore e direttore, non è riuscito a raccontare la realtà politica e sociale e per questo è stato spiazzato dalla vittoria di Donald Trump. E’ una scelta coraggiosa, che delinea quali dovrebbero essere le caratteristiche di un giornalismo in grado di recuperare credibilità: curiosità, assenza di pregiudizi, indipendenza da condizionamenti esterni, desiderio di tornare a indagare la realtà per quella che è.
Un compito a cui la stampa ha preferito spesso la partigianeria, l’assunzione di tesi precostituite, la subordinazione a interessi economici o politici.
Dato atto del coraggio intellettuale del New York Times, bisogna aggiungere che non si può ridurre tutto a pigrizia o incapacità degli analisti, dei giornalisti, dei sondaggisti. La vittoria di Trump negli Stati Uniti e, prima ancora, la Brexit sono due eventi inattesi che svelano i limiti degli strumenti cognitivi tradizionali nella comprensione della realtà.
La vittoria di Trump e la Brexit sono anche, non solo ovviamente, le prime conseguenze su scala globale della teoria elaborata dal sociologo statunitense Ralph Keyes: la fine della verità.
Nel 2004 Keyes scrisse “The Post-Truth era”, l’era della post verità.
Nell’epoca della fine della verità si crede a quello che si vuole credere e si vede quello che si vuole vedere.
E’ l’essenza del populismo del ventunesimo secolo che attraversa il mondo occidentale, che ha conquistato la Casa Bianca e che sta determinando i destini dell’Europa.
Uno vale uno, nel senso dell’opinione qualsiasi contrapposta al fatto documentato. La verità non esiste più. Esistono le verità. Quelle ufficiali e quelle non convenzionali. Quelle supportate da dati, fatti, analisi scientifiche e quelle basate su credenze e luoghi comuni. Il fattoide diventa fatto. Nella polemica sui vaccini, per fare un esempio noto, le parole dell’immunologo hanno lo stesso peso di quelle di chi, senza alcuna competenza scientifica, affermi che i vaccini siano dannosi. Anzi, i fatti sono destinati a soccombere contro i fattoidi che, per propria natura, si prestano ad essere amplificati dalla potenza dei social media e più facilmente assunti come veri da una opinione pubblica distratta o poco preparata.
I media, i giornalisti e i professionisti della comunicazione sono di fronte a una sfida enorme: raccontare con trasparenza, svelare i meccanismi della propaganda e della costruzione delle narrazioni senza esserne strumento, riportare il dibattito e la cronaca sul piano della realtà.
Un compito difficilissimo che è un presupposto necessario per superare la crisi del giornalismo.