Una iniziativa come quella di Ikea non si era ancora vista. E mancano i termini per definirla. Potremmo proporre “war marketing” o “human rights marketing“. Una operazione benefica per raccogliere fondi a favore dei profughi siriani su cui però si allunga l’ombra della speculazione sulla pelle delle vittime della guerra nel paese mediorientale.

Nel cuore dello spazio espositivo del suo negozio di Slependen, in Norvegia, il colosso svedese dell’arredamento ha allestito “Syria 25“: un ambiente di 25 metri quadri che riproduce l’ambiente dove è costretta a vivere una donna siriana, assieme ai suoi nove figli.

Una piccola stanza composta da mattoni grezzi, dove manca tutto e dove dieci persone sfuggite alle bombe devono accontentarsi di un giaciglio buttato a terra dopo avere perso tutto.

Uno shock per le decine di migliaia di visitatori del negozio, impreparati a confrontarsi con l’immagine della guerra proprio quando avevano deciso di immergersi nel rassicurante mondo di Ikea, strutturato per accogliere il pubblico in una scenografia che evoca il focolare e il caldo abbraccio della famiglia.

Anche quella di Rana e dei suoi nove figli è una famiglia, una famiglia siriana sotto le bombe, e i cartellini che di solito indicano caratteristiche e prezzi dei prodotti e ti dicono dove trovarli al reparto scaffali, narrano la storia delle centinaia di migliaia di profughi siriani.

La casa siriana di Rana e dei suoi nove figli è stata visitata da oltre 40mila persone.

I 25 metri quadri di mattoni grezzi, finestre rotte e coperte buttate a terra sono serviti a raccogliere fondi per la Croce Rossa attraverso il crowdfunding. Una mossa sicuramente efficace – sono stati raccolti 22 milioni di Euro – che lascia però l’amaro in bocca per la spettacolarizzazione del dramma della guerra.