Continua il dibattito su Essena O’Neill, la modella australiana che ha denunciato i social network per la loro falsità, affermando che non hanno niente di reale e che per postare i contenuti più interessanti gli influencer vengono spesso, se non sempre, pagati dai brand.
Al di là delle motivazioni che hanno spinto Essena ad abbondonare le piattaforme social con più di mezzo milione di follower, la giovane blogger ha creato ormai un’interessante case history per i futuri studenti di comunicazione.
A scatenare il clamore mediatico è stato non solo il pianto della O’Neill, ma soprattutto lo scontro tra i contenuti pubblicitari e quelli autentici, che ha radici lontane. Già nel 2009, infatti, Nestlè cercò di far sponsorizzare ad un gruppo di mamme blogger  il proprio latte in polvere. In quell’occasione la community online si divise tra chi era d’accordo e chi non condivideva questo modo di promuovere i prodotti. Il caso creato della multinazionale svizzera, però, non portò al cambiamento delle regole del gioco.
Cambiamento che la vicenda di Essena ha riportato alla ribalta, con una piccola ma sostanziale differenza. Il caso Essena non può essere ignorato, sia perché c’è già qualcuno che ha avanzato proposte per risolverlo, sia perché è destinato a rimettere in discussione il rapporto tra influencer e brand. Un esempio di questa nuova prospettiva? L’introduzione dell’hashtag #spon obbligatorio per le foto sponsorizzate. Questa soluzione porterebbe mettere sullo stesso piano i new media con i media tradizionali, dove la distinzione tra i contenuti autentici e quelli sponsorizzati/pubblicitari è ben chiara e regolamentata, segnando in questo modo una tappa importante nell’evoluzione dei social media e ponendo quindi una nuova sfida a comunicatori e pubblicitari.