Informazione a pagamento, il Corriere apre una nuova strada. La nostra intervista in esclusiva a Nicola Speroni
Tutta l’editoria italiana, in queste settimane, ha gli occhi puntati su via Solferino a Milano.
Il Corriere della Sera ha lanciato la versione a pagamento di corriere.it e il successo o il fallimento del tentativo avranno un impatto inevitabile sulle scelte dei grandi player dell’informazione.
In questa intervista a Mediatyche, Nicola Speroni, responsabile Sistema del Corriere della Sera, rende nota per la prima volta la soddisfazione dell’azienda per i risultati.
“Siamo soddisfatti” ci dice, anche se, in attesa di una elaborazione da effettuarsi dopo un congruo periodo di tempo, numeri per ora non ce ne sono. “Non comunichiamo ancora i dati degli abbonamenti perché sono trascorsi troppo pochi giorni”.
Nessuno, in Italia, ha ancora trovato un modello vincente per il mercato digitale. Dove la pubblicità è un business soprattutto per i cosiddetti Over The Top, come Facebook e Google.
“Abbiamo deciso di anticipare una tendenza” ci spiega Nicola Speroni. Si scommette sulla qualità del prodotto, unico argine contro lo strapotere dei giganti della rete. E per vincere la scommessa, Rcs ha ricalcato l’approccio del New York Times, il Metered model: 20 articoli gratuiti ogni 30 giorni, il resto fruibile con un abbonamento mensile. 9 Euro e 99 per l’edizione online e i contenuti speciali, come la possibilità di consultare l’archivio. Una scelta diversa rispetto a quella del Financial Times che ha optato per l’Hardwall, la proposta di soli contenuti a pagamento, o al modello Freemium, dove si hanno una versione completa a pagamento accanto ad alcuni contenuti gratuiti.
La strategia digitale del Corriere prevede una relazione con i grandi aggregatori di informazione. “Non traghettiamo tutto su Facebook ma alcune notizie selezionate e sperimentiamo gli Instant Articles”. Anche in questo caso il pioniere è stato il Nyt, che ha iniziato a pubblicare direttamente articoli, e non più solo link, sulla piattaforma di Mark Zuckerberg, incassando i proventi della pubblicità contenuta nelle pagine ma rinunciando al traffico generato sul proprio sito.
Il mercato della pubblicità è stagnante, il banner tradizionale non può essere il futuro, mentre casomai la tendenza è nella crescita dei ricavi dai video e nella crescita del Native Advertising.
Abituare gli utenti italiani a pagare i contenuti online è una scommessa e allo stesso tempo una necessità per gli editori. Sarebbe una sorta di “ritorno al futuro”, con il recupero di uno dei cardini del modello di business dell’era analogica: i ricavi dalle vendite.
“Gli apripista ci sono, nel campo dei prodotti culturali, pensiamo a iTunes o Spotify per l’entertainment” afferma Speroni. Una scommessa, in un panorama dove l’informazione è sempre più considerata una commodity.
“Sentiamo il tifo del settore, ma non tutti i brand possono hanno la possibilità di offrire i propri contenuti a pagamento” incalza il responsabile Sistema del Corriere. “Chi non offre un contenuto di qualità non può permetterselo”.
Ce lo aveva detto anche Bill Emmott, già direttore dell’Economist, all’ultimo Festival del Giornalismo di Perugia: “il giornalismo ha una sola strada per garantirsi un futuro nell’epoca di Internet, puntare sulla qualità del prodotto”. E anche noi di Mediatyche facciamo il tifo perché si affermi un modello di business centrato sulla qualità dell’informazione.